A volte sento il bisogno di camminare nella natura, girellando come si fa per andare a trovare a sorpresa degli amici…ora non si usa più, e le nostre visite sono sempre precedute da un messaggio whatsapp e dal suo relativo segno di spunta. Ma quando ero ragazza si usava fare così, ovviamente perché non c’era altro modo, si provava a citofonare per vedere se l’amica o l’amico poteva “scendere”…
Così a volte, quando ho una giornata libera in un giorno di buon meteo, mi sorprendo a decidere a chi posso far visita, a quale montagna, a quale albero o a quale scorcio…fortunatamente loro ci sono sempre, e non si sentono “invasi” da una visita a sorpresa, ma anzi sembra che mi stiano aspettando, che siano lì per me…e a parte qualche nuvola un po’ dispettosa quando si presenta nel momento esatto di un’alba o di un tramonto, gli alpeggi i boschi e le montagne sono sempre molto accoglienti.
Da una vetta posso accarezzare con lo sguardo sia gli stami delicati di un fiore ai miei piedi, che la catena di monti lontani all’orizzonte, includendoli in un’unica visione che mi fa sperimentare la connessione.
Lo spazio disteso e aperto davanti agli occhi mi restituisce un’identità microscopica, eppure la solitudine di fronte alla profondità del cielo o ad una parete ripida e incurante della mia esistenza appartiene a questa esperienza di connessione, in cui divento una parte dell’universo e non più il suo centro. Meno insostituibile quindi, più libera e leggera, il mio sguardo aperto che non cerca ma trova e basta, come la piccola foglia ingiallita di un faggio che tra le altre sorelle è colpita da un debole sole invernale senza un perché. E si stacca.
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Nel periodo particolare che stiamo vivendo, ci appare chiaro come siamo costretti a confrontarci con il disagio e con l’assenza…anche se fortunatamente abbiamo qualche risorsa da mettere in gioco contro la pandemia. Le generazioni nate dopo la fine della seconda guerra mondiale si stanno confrontando per la prima volta con la scomodità e la ristrettezza, con la mancanza di libertà e con la necessità di posporre, rivalutare o addirittura cancellare i propri obiettivi. In aggiunta, oltre a cure e vaccini che speriamo siano tutti efficaci, trattandosi di un’infezione altamente contagiosa se vogliamo preservare i più deboli e vulnerabili dobbiamo usare il distanziamento, che ci priva però di un antidoto alla paura molto potente e specifico della nostra specie così sociale, ovvero della rassicurazione data dalla vicinanza, anche fisica e corporea.
Le pandemie in realtà avrebbero una valenza evolutivamente molto vantaggiosa, attaccando nelle specie contagiate gli individui più deboli, senza danneggiare gli individui portatori delle varianti individuali più adatte alla sopravvivenza, che verranno trasmesse alle generazioni future. Ma da molti anni, secoli e millenni, la nostra specie è in grado di adattarsi all’ambiente, anzi a tutti gli ambienti, senza necessariamente sacrificare i più deboli, anziani, malati cronici e disabili e piuttosto utilizzando le proprie peculiari capacità di comunicazione, pianificazione e inibizione per sopravvivere in ogni circostanza, condizione e habitat. E questo ci riporta alle cosiddette regole da seguire in questi mesi, vissute come imposizioni e ristrettezze da molti di noi, mentre in realtà rappresentano i tentativi di strategie di sopravvivenza per (tutta) la specie, messe a punto con evidenti difficoltà e attraverso prove ed errori.
Restrizioni che ci riportano al tema iniziale del disagio e dell’assenza. Sono almeno 100 anni che, nel nostro comodo mondo “occidentale” la maggior parte di noi ha a disposizione case riscaldate, acqua fredda e calda e la possibilità di fare 3 pasti regolari tutti i giorni, sfruttando l’ingegno delle generazioni precedenti che ci hanno portato a questo punto…quasi nessuno di noi pensa ai secoli di ricerca e applicazione che sono serviti per poter accendere la luce in un millisecondo, schiacciando un interruttore o addirittura utilizzando un comando vocale. Semplicemente tra la nostra volontà e la sua realizzazione passa un attimo, e questo ci ha abituati, come specie prima ancora che come individui, alla rapida e completa soddisfazione del desiderio.
Naturalmente nella savana, dove abbiamo completato la nostra evoluzione circa 30.000 anni fa, per sopravvivere ci occorreva una forte spinta dopaminergica, un possente desidero che ci sostenesse durante i lenti e pericolosi passaggi necessari per procurarci cibo, riparo e partner riproduttivi…e in molti casi in assenza di un circuito di feedback per la sazietà, dato che la sopravvivenza nostra e della prole era un fatto così raro e incerto, che rendeva più adattivo l’eccesso di desiderio che la sua mancanza. Meglio quindi cibarsi di grassi e zuccheri il più possibile o ingravidare il maggior numero di donne possibili, quando erano disponibili…non potevamo certo correre il rischio di un calo del desiderio proprio nel momento favorevole!
Ma che fare invece ai giorni nostri, quando la disponibilità di queste risorse è pressoché inesauribile? Molti di noi quando si lasciano trasportare dall’impulso sono chiaramente proiettati verso l’accumulo della quantità, di beni, cibo e partner sessuali, creando dei flussi di dipendenza in cui mantenere attivo il circuito dopaminergico (senza contare poi alcune sostanze che generano di per sé dipendenza e talvolta in tempi piuttosto brevi, e che si inseriscono pericolosamente in questo gioco)
Con una certa facilità e spinti dal nostro inesauribile desiderio, possiamo quindi riempirci casa e armadi di oggetti inutili, mentre gli scaffali del supermercato traboccano di grassi, zuccheri e cibi salati per i quali nel nostro organismo non esistono meccanismi di sazietà e che possiamo acquistare a tutte le ore facilmente…Persino i partner sessuali sono accessibilissimi attraverso mille app dedicate, dove non serve sforzo o neanche grande tattica di seduzione per trovare l’eccitazione di un appuntamento nel giro di pochi click, coltivando la certezza di essere irresistibili e speciali perché possiamo scegliere sul nostro cellulare, tra i tanti profili, con chi passare il capodanno o fare serata…una certezza effimera, che perciò va rinnovata creando così la dipendenza.
In pratica, per mantenere vivo l’interesse (il desiderio è piacevole!) abbiamo appreso a sostituire la quantità alla qualità, e con questa manteniamo l’illusione del valore personale, cerchiamo di colmare dei vuoti sempre più profondi accumulando soldi e beni, successo e notorietà, ci riempiamo di cibi ed esperienze inutili e siamo capaci di passare anche un’intera vita senza avere mai avuto un rapporto davvero intimo e profondo con chicchessia ma soltanto una collezione di tante amicizie superficiali, arrivando talvolta a generare un disturbo come l’alcolismo, il sesso o lo shopping compulsivo, i disturbi alimentari, il disturbo d’accumulo o il gioco d’azzardo.
In tutte le filosofie e religioni si è sempre richiamato l’individuo ad alcune indicazioni restrittive, nei comportamenti e nella dieta, per provare così a mantenere lo stato di salute fisica e mentale e, al di là dei giudizi morali ormai obsoleti implicati da queste regole, possiamo riconoscerne il valore dell’astensione e dell’assenza, con cui ci stiamo confrontando oggi forzatamente per altri motivi.
In questi vari periodi di lock down, in molti abbiamo scoperto o ritrovato il valore della lentezza, dell’inventare o riscoprire giochi semplici chiusi in casa con i nostri figli, nelle ricette tradizionali, nei sapori poveri ed essenziali e autentici di cibi ritrovati, perché più vicini a noi e quindi più accessibili. Imparando che a volte, per gestire il nostro desiderio, e al di là delle esperienze di vita che possono avere provocato in noi vari comportamenti di continua ed esagerata ricerca, sembra essere necessario imparare a stare col vuoto, con l’assenza, con la mancanza, senza volerla riempire a tutti i costi e con qualunque cosa…provare a spostare l’interesse dall’incessante costruzione di un valore personale sempre più alto, basato sul cumulo di conquiste di vario genere che ci definisce, allo stare nel presente ordinario ma gustato con curiosità e con tutti nostri sensi, concederci esperienze che possono essere anche ricche e profonde, uniche nella loro semplicità, se sappiamo aspettare…meglio soli che male accompagnati, dicevano le nostre nonne! E questo atteggiamento mentale può essere trasposto a tutte le esperienze, non solo in campo sentimentale, e per nostra fortuna può essere appreso.
Mi è capitato di fare ritiri di meditazione anche molto lunghi, dove ho scoperto che nella concentrazione ci si confronta con la propria debolezza, nel silenzio si riscopre la gioia della comunicazione, nel digiuno il piacere e l’energia del cibo. Esistono altri modi per imparare ad essere e a restare a contatto con sé stessi e questi passano quasi sempre nel sapere stare in silenzio, a contatto con il vuoto e con l’attesa, uno di questi è la lenta raccolta e preparazione del cibo…in cui sarà il sapore che risveglierà il gusto mentre la pienezza verrà trovata nella completezza dell’esperienza e non più nel gonfiore dello stomaco e del corpo…
Così come una campana proprio perché vuota e non piena può produrre un suono, anche un piatto lasciato vuoto potrebbe fare la differenza, se ne approfittiamo per stare con quel vuoto senza riempirlo a tutti costi. E quando riusciamo a stare per un po’ presenti al silenzio, al vuoto e alla mancanza si generano inaspettate le nuove prospettive, le nuove esperienze, i nuovi sapori, le nuove relazioni…
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Quando un nuovo anno si srotola davanti a noi, ancora fresco ed inviolato nella nostra mente, ci pare che si possa finalmente dare una svolta alla nostra vita, dare inizio a nuove cose e nuove risposte alle nostre speranze.
In realtà nulla distingue questo giorno dall’ultimo dell’anno vecchio, a parte una data e un numero, a cui può legarsi la nostra intenzione ed il suo riconoscimento nei nostri cuori. In questo la natura ci è d’aiuto, riaprendo in questo periodo le porte di nuovi inizi e di nuove possibilità nel presagio della nuova luce, pur nel momento del massimo freddo e assenza di luce, nella rigidità e letargia dell’assenza di vita, o che così sembra.
Spesso però i sensi di colpa e la vergogna ci impediscono di fare passi in direzioni nuove, pur avendo riconosciuto i nostri errori passati la nostra identità resta però come incagliata e congelata nelle nostre scelte passate, ormai diventate obsolete e fallaci…così ci adattiamo a vivere una insopportabile diversità tra ciò che pensiamo/sentiamo di essere stati e ciò che vorremmo/potremmo essere… dissonanza da cui emergono perciò sensi di colpa e vergogna.
L’origine di questo soffrire è fin troppo semplice, e sta tutto nella nostra identificazione con un sé (o un io) stabile e incrollabile, con una sua identità permanente e pietrificata a cui vorremmo essere coerentemente fedeli, e che benché fittizia e ormai almeno parzialmente inutile, ci impedisce di cambiare, anzi addirittura di potere immaginare il cambiamento e la nostra stessa trasformazione (e qui sta la vera difficoltà…).
Se lasciamo che la nostra congelata rappresentazione interna si sciolga, possiamo permetterci di assomigliare invece ad una cascata, la nostra mente / corpo come un flusso che incessantemente scorre, cambiando a seconda della pioggia e del calore, dei sassi che incontra e delle balze da cui si slancia o si lascia cadere, un flusso sempre diverso pur mantenendo provvisoriamente nome e funzione. Se ce lo permettiamo quindi, possiamo cambiare e trasformarci senza vergogna a causa di quello che ci ha portato fino a questo nuovo anno, ma anzi facendone tesoro per arricchire la nostra memoria mentre lasciamo il passato nel passato…e ci tuffiamo con entusiasmo e gioia verso le nuove direzioni che portiamo nel cuore.
E così, come la cascata, poter approfittare della ricchezza d’acqua per infrangerci a terra tra luminose goccioline, formando incessanti arcobaleni, ma anche della scarsità di pioggia per dissetare piante e animali che incontriamo nel nostro raro e stentato scorrere…scorrere gioiosamente nel tempo.
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