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Mindfulness

Sospesa presenza

Nei dintorni di Valpromaro (LU)

Era parecchio tempo che volevo dare una voce a questa bella foglia che ho incontrato per caso e che non cade, ancora, anzi con l’aiuto di una vecchia tela di ragno e di un magico soffio di vento pare danzare nell’aria …così ho atteso un po’, finché qualcosa ha preso forma nella mia mente e posso dargli voce… L’attesa… è stare con quel che non c’è, ancora, familiarizzare con la mancanza e con il vuoto…

Guarda caso, siamo nei giorni del solstizio, quando il sole si ferma ad aspettare… Che cosa può mai aspettare un sole? Forse di raccogliere le forze, che l’energia un po’ ritorni per poter risalire nel cielo e ritornare a dare a sua volta forza alle cose, alla natura, alla terra. Così in questi giorni, anche a mezzogiorno il sole è così basso sull’orizzonte da sembrare volere entrare nella terra a riposarsi e stare per un po’, finalmente, al buio. Stare con l’assenza, con la mancanza, con il vuoto. La casa, vuota. Il piatto, vuoto. Il portafogli, vuoto. Il letto, vuoto. Senso e significato, vuoti anche loro… Restare in presenza non significa ignorare ma accogliere, e anche quando l’emozione sembra intollerabile, possiamo provare ad allargare la nostra prospettiva, permettendoci di scoprire che il vuoto è generato solo dai contorni o recinti che noi abbiamo messo, che ci siamo imposti. Ma non è mai, davvero, così vuoto se guardiamo fuori dai recinti.

Quando il silenzio è dappertutto, senza progetti e senza aspettative. È allora che l’attesa non è più attesa di qualcosa, ma diventa pienezza, rifugio e completezza e gioia di per sé. Siamo sempre, rapidamente, alla ricerca di qualcosa, nella fretta permessa dall’illusione della tecnologia e non ci fermiamo mai… Ingurgitiamo famelici esperienze, cose, sapori e persone, senza fermarci, senza stare, so-stare, quietamente nella mancanza, anche, di obiettivi. Quanti problemi nel nostro tempo così veloce derivano dal concederci tutto quello che possiamo in fretta, immediatamente, senza aspettare? Cibo, sesso, alcol, oggetti, sostanze ed esperienze, incessanti, senza pause, senza un momento d’ombra…senza darci il tempo di attendere prima di assaporare.

Siamo ovviamente disconnessi dalla natura che nel suo ciclico alternare di luce e temperatura potrebbe ricordarci il giusto ritmo, con il suo abbraccio dirci quando è il momento di saziarci e quando digiunare, quando cantare e fare festa, quando stare in silenzio con noi stessi….noi stessi, questa la nostra paura più grande: riconoscerci per quello che siamo, fragili e quasi invisibili in una prospettiva naturale. L’unica adatta però per imparare ad accettarci e, in definitiva, ad amare la nostra fragilità e la nostra resilienza, il mondo colorato e profondo dei nostri pensieri che così spesso vogliamo cancellare o ignorare. 

Come questa foglia, anche noi possiamo fare dell’attesa una danza e riconnetterci con la complessità del nostro essere che così spesso ci sfugge, e di cui sappiamo riconoscere solo qualche parte, ciò che si vede in superficie, a volte non sempre, quello che sembriamo…Imparare a fluttuare leggeri, a sintonizzarci con quello che accade, come naturalmente avviene al di là del tempo. Si potrebbe perciò stare nel danzare, il cielo sopra, la terra sotto e bosco e vento tutt’intorno. Forse al momento giusto arriverà anche un raggio di sole, o un po’ di pioggia… 

L’autunno muore nell’inverno, l’inverno muore nella primavera

Formazione nella grotta del Corchia
Una formazione nella Grotta del Corchia a Levigliani (LU)

Mai come nel momento dell’equinozio d’autunno, quando notiamo il rapido accorciarsi delle giornate, possiamo percepire il veloce cambiamento dei fenomeni naturali, la transitorietà delle esperienze che viene spiegata proprio dalla parola stessa equinozio, l’equilibrio perfetto si, ma di una notte soltanto. Così come al solstizio il sole sembra arrestarsi in cielo per qualche giorno, nell’equinozio invece cambia rapidamente di declinazione e nel caso dell’autunno, questa esperienza ci invita a lasciare andare velocemente le ore di luce e il calore vitale dell’estate con la stessa rapidità con cui Ade porta via l’amata Persefone, o Kore, a Demetra.

Allo stesso modo a volte la vita ci sorprende, con bruschi cambiamenti inaspettati che siamo costretti ad accogliere ed accettare nonostante non avessimo davvero previsto quella svolta, quel cambiamento, quella diagnosi, quella perdita…

Quando sperimentiamo qualcosa che ci fa provare shock e tristezza, potremmo sentire l’impulso di ritirarci dalla vita e di restare da soli a leccarci le ferite. Diventiamo consapevoli della nostra vulnerabilità e può sembrare che essere ritirati ci protegga dal mondo, mentre in questi periodi sarebbe importante farsi raggiungere dalle persone fidate e preziose che si interessano di più a noi. Anche con i nostri migliori pensieri e ragionamenti, non possiamo certo sapere se l’esperienza o la prospettiva di qualcun altro può darci quello sguardo diverso che ci occorre in questo momento. L’universo ci parla attraverso molti canali e quando ci apriamo per ricevere i suoi messaggi, potremmo ricevere anche le cure nutrienti di un partner amorevole nel corso della nostra vita.

Il dolore fa parte dell’esperienza umana e condividere la nostra vulnerabilità è ciò che crea legami veramente stretti nelle nostre relazioni. Aprirci in questo modo arriva al nocciolo del nostro essere, oltre tutte le nostre difese e pregiudizi che ne costituiscono la scorza. Quando la vita sembra spezzare il guscio esterno del nostro mondo, siamo allo stesso tempo vulnerabili e più veri, autentici. È allora che scopriamo chi è veramente disposto a camminare con noi attraverso la vita, e potrebbero anche non essere coloro che ci aspettavamo di vedere. Il periodo del lutto e della perdita ci offre l’opportunità di sentirci parte di una realtà interdipendente di cui siamo una piccola particella, collocando nella giusta prospettiva il nostro sentire. E di poter quindi confidare nell’universo, negli altri, oltre che nella nostra forza e resistenza, e nella saggezza della vita stessa al di là dell’orgoglio che ci impedisce di mostrarci, prima di tutto a noi stessi, nella nostra debolezza che pure è un aspetto importante di noi.

Potremmo anche tentare di motivare il nostro desiderio di cavarcela da soli per non sentirci in colpa o egoisti, come se stessimo pesando su qualcuno che ha già i propri fardelli da portare. Anche se, a pensarci bene, siamo certi che faremmo lo stesso per loro e che le loro proteste ci sembrerebbero inutili…

La condivisione del dolore ci consente di alleggerire il nostro carico, lasciando che qualcun altro ci aiuti a portarlo. Questo ci aiuta a elaborare i nostri pensieri e sentimenti interiori attraverso il filtro di una persona fidata e amata, elaborazione che ci permetterà di estrarre un tesoro di saggezza dal nostro trauma e di trovare insospettabili vie d’uscita proprio per mezzo della nostra debole natura, dove la crepa diventa una porta aperta sul nuovo. Anche in questo caso il mito ci aiuta, ricordandoci che la violenza del rapimento da parte di Ade della giovane Kore riluttante, è il preludio alla celebrazione delle nozze sacre, in cui i due sposi condivideranno il dominio degli inferi, che possiamo leggere come il superamento della sofferenza e del male…il potente Ade infatti conosce bene la sofferenza e anche la morte, è sopravvissuto al padre Crono che lo ha dapprima ingoiato e poi rigurgitato, e nel corso di questa esperienza probabilmente molto traumatica, il mito suggerisce che Ade ha maturato saggezza e serietà, oltre che l’Elmo dell’invisibilità, ma non durezza o crudeltà. Egli era infatti signore della morte, del sonno e dei sogni, saggio consigliere degli dei, giudice silenzioso che pur restando nell’ombra era giusto ed equo. Ha trasferito le persone da una vita all’altra, rimuovendo la distrazione del mondo esterno per godere della felicità interna della loro nuova esistenza…E del resto è proprio uscendo da questa permanenza annuale negli inferi che Kore, allontanandosi dallo sposo fecondata, sarà in grado di testimoniare con la sua gioia i doni che la madre terra Demetra offre agli umani.

Accettando quindi di condividere con umiltà e semplicità speranze e paure, incertezza e instabilità, gioie e dolori di questa fase delicata con un’altra persona, accettiamo il dono di saggezza e cura amorevole che la natura ci offre e diamo a coloro che ci amano l’opportunità di esserne un mezzo.


Pinax con Persefone e Ade su trono, V secolo a.C., da Locri Epizefiri, Italia (Reggio Calabria, Museo nazionale della Magna Grecia).

Natura e consapevolezza

Il Serchio di Gramolazzo

Il nostro universo è un continuo fluire di esperienze in interazione con l’ambiente, interno ed esterno. Questo flusso è percepito in soggettiva attraverso i sensi e gli stati fisiologici ed emotivi, il tutto mediato dai pensieri. I nostri pensieri creano concetti e descrivono le nostre percezioni sensoriali ed i nostri stati interni, a loro volta basati sulla continua trasformazione della nostra incessante e reciproca influenza con l’ambiente.

Quando diamo importanza ai pensieri più che alle percezioni e ai sensi, questi occupano in modo assillante la nostra mente e non ci permettono di essere a contatto con la realtà, inclusi i nostri bisogni e il nostro sentire più profondo. Con il pensiero creiamo il mondo che conosciamo e nel quale i pensieri e i concetti diventano concreti e tangibili, strade, case, automobili, guerre e denaro merci ed oggetti, gioia e disperazione, aspettative e mancanza di senso…il mondo nel quale viviamo ed in cui è sempre più impossibile vivere e adattarsi mano a mano che l’esperienza concettuale prevale, e diviene l’unica esperienza possibile, mentre perdiamo il contatto con le sensazioni e le percezioni. Questa è il tipo di esperienza che descrive e etichetta tutta la realtà, senza lasciare spazio a quello che si trova tra un nome e l’altro…

Ma il flusso di esperienze naturali nel frattempo continua ad esistere, dentro e fuori di noi, benché immersi in esso non riusciamo a viverlo pienamente e ci arrampichiamo sui concetti che stiamo creando, sempre più lontani dal reale… questo è il significato profondo dell’albero della conoscenza del bene e del male, il fico di cui abbiamo assaggiato il dolce frutto per cui siamo stati cacciati all’esterno dell’esperienza del paradiso naturale in cui non esistono i concetti e l’illusione di un’io separato.

Lo sviluppo di presenza mentale ci permette proprio di ritornare alla nostra mente naturale, consapevoli e presenti nel flusso dell’esperienza. Nel percorso i concetti possono aiutare, per distinguere ciò che è salutare da ciò che non lo è, ma alla fine vanno abbandonati e la nostra percezione diventa diretta e spontanea, non mediata da concettualizzazioni. In questo la natura, nei suoi molteplici aspetti di acqua, terra, aria, fuoco e spazio può accoglierci e guidarci se glielo permettiamo, così come lo stato del completo risveglio da questa illusione, l’ottenimento della bodhi, è avvenuto per la prima volta proprio meditando ai piedi del fico sacro, lo stesso albero del peccato originale…

Il Fico sacro

Avvicinarsi alla natura in uno stato meditativo di presenza mentale, nel silenzio e con apertura, ci permette quindi non solo di ricaricarci energeticamente, con enormi benefici per il corpo e la mente ormai documentati, ma soprattutto in questa immersione di rientrare in connessione con l’universo, piante, animali, terreno e territorio inclusi coloro che lo hanno abitato prima di noi, per partecipare del suo equilibrio spontaneo e semplice e della sua sapienza al di là del tempo.

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